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Non basta l’addio di ArcelorMittal: in attesa di un acquirente, la produzione di acciaio negli stabilimenti del gruppo Acciaierie d’Italia è ai minimi storici. L’attesa del piano di rilancio dell’esecutivo si sta trasformando sempre più in un’agonia

L’addio di ArcelorMittal, con l’avvio a gennaio dell’amministrazione straordinaria, non basta a risollevare le sorti dell’ex Ilva. In attesa che un acquirente si faccia avanti, la produzione di acciaio nella grande fabbrica di Taranto e negli altri stabilimenti del gruppo Acciaierie d’Italia è ai minimi storici.

Lunedì il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha incontrato nuovamente i sindacati insieme ai tre commissari straordinari, per esporre il piano del governo sul rilancio dell’acciaieria, promettendo un nuovo finanziamento di 150 milioni di euro, da aggiungersi ai 150 già stanziati dai commissari e in attesa del prestito ponte da 320 milioni, sui quali si attende il via libera dell’Ue, che dovrà valutare se il prestito viola la normativa comunitaria sugli aiuti di Stato.

Qualcosa si muove, ma la luce in fondo al tunnel ancora non si vede: «Se non arriva il prestito nel giro di un mese e mezzo, chiudiamo», ha dichiarato lapidario Giovanni Fiori, che insieme a Davide Tabarelli e Giancarlo Quaranta compone la terna dei commissari straordinari di Acciaierie d’Italia.

Altiforni spenti

L’attesa si sta trasformando sempre più in un’agonia, con gli stabilimenti che hanno quasi smesso di produrre, riducendo l’organico in attività al minimo indispensabile affinché gli impianti non si spengano del tutto. Dal 25 aprile è infatti scattata una chiusura collettiva che si protrarrà fino al 5 maggio.

Una sorta di lungo ponte per i dipendenti che potranno volontariamente andare in ferie, una novità assoluta in oltre sessanta anni di storia del polo siderurgico. Nello stabilimento di Taranto resta in funzione solo un altoforno su tre, che però continua a produrre al di sotto delle sue potenzialità.

Gli altri due, ormai fermi da svariati mesi, potrebbero non riaccendersi più, per essere sostituiti da due forni elettrici, che – stando a quanto dichiarato dal ministro Urso – entrerebbero in funzione nella seconda metà del 2027.

A Taranto c’erano altri due altiforni: uno è stato dismesso, l’altro è spento dal 2015, l’anno del primo commissariamento, mai concluso: a oggi sono circa 2.500 i lavoratori ancora in cassa integrazione, su un organico di 10mila dipendenti, senza contare i lavoratori dell’indotto, che risentono della riduzione della produzione: l’acciaieria procede a un ritmo produttivo di 1,3 milioni di tonnellate l’anno, ne servirebbero almeno 6 per raggiungere l’equilibrio.

La reazione dei sindacati

I più preoccupati da questo stallo sono i lavoratori e i sindacati, stanchi delle troppe promesse non mantenute in questi anni, sia dal governo che dai privati.

«Sta passando troppo tempo, e le risorse non bastano. Le nozze con i fichi secchi non si fanno», si legge nel comunicato congiunto diffuso da Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm al termine dell’incontro di lunedì a palazzo Chigi con il ministro Urso e i commissari. Il 7 maggio ci sarà un nuovo incontro, questa volta a Taranto, per fare il punto sulla situazione degli impianti e sulla gestione della cassa integrazione.

Per un vero rilancio dell’ex Ilva servono finanziamenti ben più corposi rispetto ai 150 milioni di euro annunciati. Il governo non sembra intenzionato a caricarsi interamente sulle sue spalle il peso della riqualificazione, allontanando così lo scenario della nazionalizzazione auspicato dai sindacati, ed è in cerca di acquirenti privati.

In queste settimane si sono fatti i nomi dell’italiana Arvedi e dell’ucraina Metinvest, a cui si aggiungono gli indiani di Vulcan Green Steel e – ultimi in ordine di arrivo – di Steel Mont, altro gruppo siderurgico indiano. Arvedi e Metinvest potrebbero anche presentare un’offerta congiunta entro la fine dell’anno.

Ma se non dovessero arrivare a breve le nuove immissioni di liquidità promesse dal governo, su tutti il prestito di 320 milioni, rischia di essere troppo tardi per salvare l’acciaieria più grande d’Europa.

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