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Foto di Mathieu Stern su Unsplash

Sono passati diversi mesi da quando, il 4 agosto 2023, il DDL riguardante il progetto di riforma fiscale è stato convertito in Legge dello stato e che ha stabilito un percorso a tappe, in due anni, per giungere, attraverso i vari decreti attuativi, al risultato previsto che vede, come punti più significativi, la razionalizzazione del sistema impositivo e, come obiettivo finale, la riduzione strutturale della pressione fiscale che, nel 2023, ha toccato il 47,4% secondo le rilevazioni del centro studi della CGIA di Mestre che, però, divergono e non di poco dal valore indicato da ISTAT che si ferma al 41,2%.

Di primo acchito ci si potrebbe chiedere del perché della differenza e, in effetti, se si leggesse il report diffuso dalla Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato il mistero si dissolverebbe poiché vi viene indicato chiaramente che la base di calcolo sia differente e che dal dato al denominatore venga scorporata la parte relativa all’economia sommersa, che invece è stimata nel computo generale del PIL sia da Istat sia da Eurostat, e che, in ogni caso, i dati diffusi dal MEF siano corretti e la pressione fiscale sia, seppur di poco, in continua diminuzione.

Chiarita questa dissonanza che ha spinto numerosi titoli sui quotidiani è opportuno valutare a che punto sia l’attuazione del progetto di riforma a nove mesi dall’approvazione della Legge Delega.

Nessuno può negare che l’Esecutivo proceda speditamente, avendo fatto di questo quasi una bandiera, e solo poco tempo fa era stato emanato un decreto attuativo che ha toccato in maniera sensibile il settore della riscossione ma gli interventi più attesi riguardano la questione tasse tout court. Il problema è che le risorse finanziarie per le coperture dei provvedimenti siano finite.

Stante i noti problemi di finanza pubblica, legati sia all’alto livello dei tassi imposti dalla BCE che rendono più onerosa la servitù del debito pubblico sia al “buco” creato dalla strutturazione, diciamo, pedestre dei bonus edilizi durante il periodo pandemico, vengono rimandate al prossimo anno diversi capitoli della riforma, dalla revisione delle aliquote IVA alla detassazione delle tredicesime (che sarà, in parte, compensata da un bonus a gennaio di 100 euro per i redditi inferiori ai 28’000 euro, anche se non per tutti) alla rimodulazione delle aliquote IRPEF che, pare, sia già un provvedimento “blindato” da portare a terra obbligatoriamente con il prossimo anno.

Vero è che dal riordino delle cosiddette tax expenditures, quindi agevolazioni, deduzioni, detrazioni e esenzioni che permettono di ridurre il prelievo ai contribuenti, che sono quasi 600 si potrebbe “aggredire” una voce di spesa di circa 165 miliardi di euro ma anche questa opera di revisione e razionalizzazione va fatta con una certa attenzione poiché si rischia di ottenere, addirittura, l’effetto contrario a quello desiderato arrivando a un aumento complessivo del prelievo fiscale che, nel caso più favorevole e auspicato, dovrebbe derivare da una maggiore crescita economica e non da un mero aggravio impositivo, come invece si è sempre visto negli scorsi anni.

Più volte si è fatto notare che la situazione oggi non sia certo rosea, sia per lo scenario geopolitico, con due conflitti vicini all’Euroarea in corso, sia per la politica monetaria miope condotta dalla BCE che sta mostrando quello che può essere definito come effetto reddito su famiglie e imprese riducendone le risorse per consumi e investimenti, di fatto creando grossi ostacoli a interi segmenti di mercato, come quello immobiliare, che, invece, avrebbe potuto avere uno slancio dall’agenda UE sull’efficientamento energetico.

Mentre lo shock inflattivo che ha portato alla chiusura dell’azione, fin troppo, espansiva della banca centrale è, ormai, rientrato ancora non si vede una reale apertura ad una normalizzazione della politica monetaria che, attenzione, non vuol dire tornare al modello estremamente espansivo precedente ma un livello di tassi che possa essere di supporto al sistema economico, quindi non troppo elevato da rendere difficoltoso l’accesso al credito, che è prodromico agli investimenti produttivi, né troppo basso da spingere la ricerca compulsiva di rendimento favorendo anche la creazione di vere e proprie “bolle finanziarie”. L’azione della BCE ha avuto un impatto recessivo su tutto il continente, spingendo in negativo gli indici di crescita di molte zone e “azzoppando” la ripresa di altre che stavano uscendo, anche in maniera brillante, dalla crisi apportata dalla pandemia negli scorsi anni.

Il progetto di riforma fiscale, infatti, si è scontrato con questo scenario e, come si diceva qualche riga sopra, con la follia dei bonus edilizi introdotti dal secondo governo Conte che, illudendo molti con la promessa di una completa ristrutturazione delle proprie case in maniera gratuita (qualcuno avrebbe dovuto far notare che “non esistono pasti gratis” come recita un famoso detto), ha creato un buco nei bilanci; tutto questo ha generato non uno stop all’azione riformista ma ha obbligato a “tirare il freno” facendo i conti con la realtà e con le coperture disponibili per portare a conclusione l’opera.

Tutte le risorse disponibili, oggi, sono quindi state indirizzate sul finanziamento delle azioni di sostegno ai redditi più bassi oltre che per la stabilizzazione del bilancio pubblico con il contenimento del deficit per evitare una nuova esplosione del debito pubblico che, comunque, è previsto in leggero aumento sia per quest’anno sia per il prossimo sempre che la crescita economica non riparta in maniera consistente.

La cosa che, però, dovrebbe rendere migliori le aspettative sull’evoluzione dello scenario è la “blindatura” che si è voluto apporre sulla rimodulazione delle aliquote IRPEF già per il prossimo anno e il mantenimento della flat tax IRES, mentre, purtroppo, restano programmate per il secondo semestre di quest’anno l’applicazione delle penalizzanti “sugar tax” e “plastic tax” che, finora, si era riusciti continuamente a posticipare nonostante il gettito teorico fosse già contabilizzato fin dall’epoca del secondo governo Conte e, ancora, non si vedono né la rimodulazione dell’IVA né il superamento del superbollo sulle automobili di maggior potenza.

Diciamo che l’azione riformatrice abbia avuto una seria “botta d’arresto” dovuta alla situazione finanziaria contingente ma che non appaia assolutamente “messa in soffitta” come già si era visto in passato in condizioni analoghe; sembra, quindi, che per la prima volta un governo italiano abbia compreso l’importanza delle aspettative e della fiducia degli operatori di mercato per spingere su quella crescita che rappresenta l’unica via per il superamento di quell’impasse finanziaria in cui versa, da fin troppo tempo, il Paese caratterizzato da alta spesa e da un indebitamento fin troppo consistente, in relazione al PIL, e che solo la crescita di quest’ultimo, a livelli di spesa invariati possa permettere di cambiare l’Italia e di riportarla tra i giocatori più influenti nello scacchiere mondiale.

 

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