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Quando l’orologio di Antonio Lo Giudice, 44 anni, si è fermato indicava le ore 12:05 e 44 secondi. Il Rolex era al polso carbonizzato del suo legittimo proprietario all’interno di un’auto completamente distrutta dalle fiamme, trovata in contrada Indu nelle campagne del Comune di Filandari. Era l’estate del 1996 e il medico legale redigerà una relazione nella quale attesta che Antonio Lo Giudice è morto il cinque agosto alle ore 12. Causa del decesso: un colpo di arma da fuoco a canna lunga caricato a pallettoni. La vittima è stata colpita al collo e al torace da una persona che si trovava a uno-due metri da lei.

Anche la macchina nella quale Lo Giudice è stato trovato era crivellata di colpi: una decina di fori di entrata nel portellone posteriore e, sullo schienale sinistro, otto fori di entrata e otto fori di uscita. 
All’appello, in quell’agosto del 1996, mancava però un’altra persona che con Antonio Lo Giudice era stata vista per l’ultima volta: Roberto Soriano, appartenente all’omonima cosca di Filandari.
Di lui non si troverà mai neanche la polvere perché, raccontano i collaboratori di giustizia, è stato «macinato con la fresa del trattore».

Per l’omicidio di Roberto Soriano e di Antonio Lo Giudice sono stati condannati all’ergastolo il boss di San Gregorio d’Ippona Saverio Razionale e il boss di Zungri Giuseppe Accorinti.

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La Corte: «Provata la responsabilità di Razionale e Accorinti»

Secondo i giudici della Corte d’Assise di Catanzaro, gli elementi emersi nel corso del processo «consentono di ritenere provata la penale responsabilità di Giuseppe Antonio Accorinti e Saverio Razionale in ordine al duplice omicidio di Roberto Soriano ed Antonio Lo Giudice».
I due imputati lo scorso 28 novembre sono stati condannati alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per due anni, al termine del troncone sugli omicidi relativi al maxi procedimento Rinascita-Scott che ha contemplato, oltre al duplice delitto Soriano-Lo Giudice anche omicidi di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano avvenuti il 9 febbraio 2002 a Vallelonga, la scomparsa di Filippo Gangitano, avvenuta a Vibo Valentia a gennaio del 2002.

Il contributo dei collaboratori, la ‘ndrangheta vibonese sapeva

Nelle motivazioni della Corte d’Assise, viene riportato il fondamentale contributo fornito dai collaboratori di giustizia in merito al delitto Soriano-Lo Giudice.
Angolino Servello, Andrea Mantella, Emanuele Mancuso, Bartolomeo Arena, Raffaele Moscato, ognuno di loro ha dato in diversa misura un apporto alla ricostruzione del duplice omicidio, a dimostrazione, anche, che all’interno della criminalità vibonese la notizia fosse nota e passasse di bocca in bocca.
Infatti, a parte Servello e Mantella che hanno appreso del delitto direttamente dagli autori, gli altri collaboratori hanno avuto le stesse informazioni da altre fonti interne alla ‘ndrangheta vibonese. Per esempio le fonti di Bartolomeo Arena «sono Francesco Antonio Pardea e Domenico Macrì, che, quando uscivano dal carcere, gli riferivano che Leone Soriano attribuiva la scomparsa del fratello, Roberto Soriano, a Giuseppe detto Peppone Accorinti e Saverio Razionale».
Moscato ha appreso il fatto «dalla componente ‘ndranghetista dei Piscopisani, Rosario Battaglia e Francesco Antonio Pardea».

Emanuele Mancuso e le confidenze di Salvatore Ascone

Un caso particolare è quello di Emanuele Mancuso, il quale ha affermato di avere avuto la notizia da Salvatore Ascone, soggetto oggi sotto processo con l’accusa di avere partecipato al delitto dell’imprenditrice Maria Chindamo. «Peppone Accorinti insieme a Razionale avevano ucciso il padre di Giuseppe Soriano, a Roberto», racconta Mancuso specificando che la storia era nota nell’ambito della famiglia Mancuso, ma ne aveva conosciuto i dettagli da Salvatore Ascone che il collaboratore definisce «il top dei narcotrafficanti che c’era nel Vibonese» nonché «il perno della cosca Mancuso». Mancuso si dice anche sicuro che questi fatti Ascone li abbia appresi all’interno della cosca di Limbadi e da Accorinti.

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Ciò che avvalora le dichiarazioni di Emanuele Mancuso è un’intercettazione del 24 marzo 2019 nel corso della quale Salvatore Ascone commenta col figlio Rocco il contenuto di un articolo di stampa che parla di dichiarazioni rese da Emanuele Mancuso aventi ad oggetto vicende che interessano dinamiche criminali e retroscena delle vicende delle cosche vibonesi.

L’agitazione di Ascone: «A me non mi ha nominato?»

Quando il collaboratore comincia a fare riferimento all’omicidio di Roberto Soriano, Ascone si agita. «A me non mi ha nominato?», chiede al figlio. E ancora più in fibrillazione: «Non è che dice che gliel’ho detto io di questo fatto? Dice che gliel’ho detto io?… Che l’hanno macinato con la fresa?», esclama dimostrando di conoscere anche i macabri dettagli dell’omicidio. E quando il figlio legge proprio la parte in cui si parla della fresa, Ascone esplode: «Questo glielo dice che gliel’ho detto io che l’hanno macinato con la fresa! Questo figlio di p*****a!».
«Non v’è dubbio che il contesto del dialogo captato – è scritto in sentenza – consente di affermare che l’Ascone, in ragione del suo ruolo verticistico nel settore del narcotraffico vibonese, fosse pienamente a conoscenza della dinamica omicidiaria e dei suoi autori; dato avvalorato dalla narrazione puntuale e dettagliata nei minimi particolari fornita dal collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso».

Il contesto criminale in cui è maturato il delitto

In conclusione, la Corte ha accolto le convergenti dichiarazioni dei collaboratori. Servello, in particolare, ha raccontato della rivalità tra i Soriano e i due imputati, Razionale e Accorinti, «per aver vissuto in prima persona, in ragione di traffici di stupefacenti gestiti assieme, l’essenza dei rapporti stessi connotati da rivalità» mentre «Peppe Mancuso, detto Mbrogghia, che ha cercato di strumentalizzare le divisioni tra le varie componenti, provocandole o accentuandole, per consolidare la sua leadership».
In questo contesto è avvenuto il delitto.
Per una partita di stupefacente sulla quale Soriano avrebbe voluto rinegoziare il costo, Saverio Razionale avrebbe preso a schiaffi Soriano e questo avrebbe indotto Soriano ad effettuare agguati verso Razionale.
Due agguati, uno sparando dentro casa di Razionale e un altro che sarebbe stato, dicono i collaboratori, commissionato da Giuseppe Mancuso detto Mbrogghia. Razionale è riuscito a scampare a entrambi i tentativi di ucciderlo.

La trappola: la morte immediata per Lo Giudice e la tortura per Soriano

Nell’agosto del 1996 Soriano e Lo Giudice si sono presentati nella masseria di Giuseppe Accorinti per avere notizie su una macchina rubata appartenente ad una fidanzata di Lo Giudice. A questo punto sarebbero stati trattenuti da Accorinti il quale, avvertito Razionale, avrebbe messo in atto una «trappola», così la chiamano sia Servello che Mantella. «Tutti e due i collaboratori hanno sostenuto che l’obiettivo era Soriano, infatti, a Lo Giudice veniva offerta la possibilità di sottrarsi, e, nel momento in cui Lo Giudice non ha abbandonato Soriano al suo destino, gli è stato riservato un diverso trattamento: è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco e successivamente è stato fatto ritrovare il suo cadavere carbonizzato. Discorso diverso per Roberto Soriano, il quale è stato torturato al fine di fargli confessare di aver attentato alla vita di Razionale per poi far sparire il suo cadavere (mai ritrovato) o quello che rimaneva all’esito della cruenta e violenta tortura».
Ma perché, visti i contrasti personali dovuti ad alleanze tra le diverse componenti, Soriano si era recato senza remore da Accorinti?
Secondo Mantella e Servillo «Roberto Soriano in quel momento, in ragione dello spazio che gli aveva riconosciuto Peppe Mancuso (gli aveva fatto conferire la dote con copiata assai prestigiosa), aveva titolo per dialogare autorevolmente con ogni esponente di spicco del mondo criminale».

 

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